IL DISTURBO DI PANICO

Che cos’è il disturbo di panico: dalla diagnosi alla cura.

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CHE COS’È IL DISTURBO DI PANICO

 

La diagnosi

 

Secondo il DSM-5 (Manuale Diagnostico e Statistico dei Disturbo Mentali; APA, 2013) il Disturbo di panico si caratterizza per la presenza di ricorrenti e inaspettati attacchi di panico, e cioè degli episodi caratterizzati dalla comparsa improvvisa di un’intensa paura, che raggiunge il picco in pochi minuti, e che si accompagna a tutti o ad alcuni dei seguenti sintomi:

  • tachicardia o palpitazioni
  • tremori
  • senso di soffocamento
  • dolore al petto
  • sudorazione
  • sensazione di asfissia
  • senso di svenimento, vertigine o testa leggera
  • nausea 
  • brividi o vampate di calore
  • paura di perdere il controllo
  • paura di morire
  • senso di derealizzazione
  • formicolii o sensazioni di torpore

Questo stato di intensa attivazione può verificarsi sia a partire da una condizione di ansia che di quiete. 

Per poter diagnosticare un Disturbo di panico, dopo tali attacchi deve manifestarsi anche una delle seguenti condizioni: 

  • una forte e costante preoccupazione che possano ripresentarsi e che si verifichino le conseguenze temute (es. impazzire, perdere il controllo, avere un infarto ecc.); 
  • una significativa modificazione dei propri comportamenti in funzione degli attacchi di panico (es. evitare i luoghi in cui potrebbero verificarsi). 

 

Diagnosi differenziale e comorbidità

 

Quando gli attacchi di panico si presentano con una sintomatologia attenuata, anziché diagnosticare il Disturbo di panico si prendono in considerazione anche altri disturbi, nel corso dei quali possono presentarsi questo tipo di attacchi come ad esempio i disturbi depressivi, il disturbo da uso di sostanze o altri disturbi d’ansia. 

Gli attacchi di panico che si verificano come sintomi di altri disturbi, in genere non sono inaspettati ma sono piuttosto legati a dei fattori scatenanti specifici per tali condizioni: ad esempio, nel Disturbo d’Ansia Sociale possono verificarsi in determinate situazioni di esposizione sociale, oppure nel caso di Fobia Specifica possono essere esacerbati dalla presenza dell’oggetto temuto. 

Un discorso a parte va fatto per l’Agorafobia. Questo disturbo si caratterizza per un’intensa paura o ansia relativa a situazioni quali l’utilizzo dei trasporti pubblici, trovarsi in spazi aperti o chiusi, stare in fila o tra la folla, essere fuori casa da soli. Tali timori portano la persona a evitare, o a vivere con particolare ansia, queste situazioni in occasione delle quali si sviluppano pensieri come “i soccorsi potrebbero non essere disponibili“, “potrebbe essere difficile fuggire in caso di panico“, “sarebbe imbarazzante sentirsi male o cadere in quel contesto“. L’Agorafobia viene diagnosticata indipendente dalla presenza di un Disturbo di panico, ma le due diagnosi possono essere poste in contemporanea. 

Il Disturbo di panico si manifesta spesso in comorbidità con altre condizioni quali il Disturbo Depressivo Maggiore, il Disturbo d’Ansia Generalizzata, il Disturbo d’Ansia Sociale e la Fobia specifica (Brown et al., 2001), ed è piuttosto infrequente che si presenti come unica condizione psicopatologica (APA, 2013). 

 

Fattori predisponenti 

 

Si ritiene che vi siano diverse condizioni che possono predisporre all’insorgenza del Disturbo di panico. 

I tassi di familiarità ad esempio sono consistenti: si stima che il 15-20% dei parenti prossimi di una persona con Disturbo di panico, possa sviluppare a sua volta lo stesso disturbo. Come per altri disturbi psicologici, trattandosi di fenomeni complessi, i geni possono conferire una vulnerabilità che poi andrà incontro a diverse traiettorie evolutive a seconda dei percorsi di sviluppo della persona.

A livello di personalità, un aspetto molto indagato nell’ambito dei disturbi d’ansia è il nevroticismo (o affettività negativa), una tendenza generale a sperimentare emozioni negative di fronte agli eventi, come paura, tristezza, rabbia, senso di colpa e disgusto. Le persone che si caratterizzano per alti livelli di nevroticismo tendono ad essere meno abili nel controllare i propri impulsi e reagiscono in modo peggiore allo stress (McCrae & Costa, 2013), e questo potrebbe predisporre allo sviluppo del panico. 

In linea con il modello cognitivo del disturbo (Clark, 1986; Clark & Beck, 2010), un ruolo di primo piano sarebbe inoltre giocato da fattori quali una spiccata attenzione verso i segnali somatici interni e lo sviluppo di credenze inerenti la pericolosità di certi stati fisici o mentali. 

 

Esordio

 

Il Disturbo di panico tende ad insorgere nella tarda adolescenza o nella prima età adulta (Kessler et al., 2005), ma in genere la ricerca di un trattamento avviene molto più tardi, anche dopo anni. 

Spesso il primo attacco di panico è preceduto da un periodo particolarmente stressante, caratterizzato da difficoltà lavorative, separazione da una persona cara, problemi di salute, o lutto.

Gli attacchi di panico, come abbiamo detto, possono verificarsi in modo spontaneo e inaspettato (senza un fattore di innesco evidente) – anche di notte mentre si sta dormendo – oppure avvenire contestualmente ad una specifica situazione o stimolo, sia presente che anticipato. Anche se devono verificarsi degli attacchi inaspettati per poter porre diagnosi di Disturbo di panico, la maggior parte di essi si verifica come conseguenza all’esposizione ad uno specifico fattore o situazione in presenza del quale, in genere, sono già avvenuti altri attacchi.

I fattori di innesco possono essere di tipo esterno (situazioni quali guidare l’auto, essere in mezzo alla folla ecc.) oppure interno (come pensieri, immagini, emozioni o sensazioni corporee). 

Il primo attacco di panico si verifica in genere fuori casa e la sensazione che viene riferita è quella di essersi trovati privi di una via di fuga o di una soluzione (es. bloccati in ascensore o in auto, lontani da casa, costretti al giudizio sociale) mentre si esperivano dei sintomi fisici vissuti come estremamente pericolosi (es. battito cardiaco accelerato, senso di svenimento ecc.). 

 

Manifestazione clinica del panico

 

Il modello cognitivo del panico (Clark, 1986; Clark & Beck, 2010) illustra in modo chiaro il meccanismo patologico che caratterizza questo disturbo. 

Il punto di partenza consiste nella presenza di uno stimolo (o innesco) di natura esterna o interna; gli stimoli interni, come ad esempio le sensazioni corporee, sono il principale innesco degli attacchi di panico, mentre gli stimoli esterni tendono a diventarlo solo nel tempo, dopo alcuni attacchi, in quanto rappresentano in genere le situazioni in cui lo stimolo fisico si è attivato e può attivarsi nuovamente. 

Tale innesco (ad esempio un battito cardiaco “anomalo”) viene notato ed interpretato come minaccioso; le persone predisposte al panico tendono ad essere ipervigilanti nei confronti dei propri stati somatici e prestano molta attenzione ai cambiamenti percepiti nel proprio corpo, anche quando essi sono del tutto fisiologici. 

La valutazione rispetto alla presenza di una minaccia implica l’attivazione rapida di uno stato di paura, che a sua volta si accompagna ad un incremento delle sensazioni fisiche oggetto della propria attenzione (es. incrementa la velocità del battito cardiaco) e ne aggiunge di nuove (es. tremori, sudorazione); in questo modo si rinforza l’idea di dovervi prestare ancor più attenzione e si sviluppano su di esse interpretazioni sempre più catastrofiche (conferma di gravità, conseguenze temute, valutazione delle proprie risorse etc.), e l’ansia sale sempre di più all’interno di un circolo di vizioso tra corpo e mente difficile da interrompere.

 

I fattori di mantenimento

 

Mentre uno stato di paura/ansia non è di per sé patologico, ma anzi assolve a funzioni essenziali per la sopravvivenza, esso può divenire disfunzionale poiché una volta che il “falso allarme” del panico si è verificato (Craske & Barlow, 2007) si instaurano dei meccanismi volti al riconoscimento della minaccia, al controllo e al sollievo da essa, che in realtà finiscono solo per alimentarlo e mantenerlo.

Tra questi possiamo pensare al tentativo di evitare attacchi in futuro non recandosi più nei luoghi in cui è accaduto o evitando le attività che potrebbero causare certi segnali del corpo (come l’attività fisica e l’accelerazione del battito cardiaco); o magari la decisione di portare sempre con sé un certo oggetto (es. dello zucchero, un farmaco, un ombrello) che potrebbe risultare utile in caso di bisogno; oppure farsi accompagnare sempre da qualcuno quando si esce, o non allontanarsi mai troppo da casa; o ancora, fuggire dalle situazioni appena si avverte un segnale considerato in qualche modo connesso al panico o mettere in atto un altro specifico comportamento di prevenzione come restare tutto il tempo appoggiati ad un supporto per evitare di cadere in caso di svenimento. 

In alcune situazioni le circostanze ambientali e relazionali possono fungere da rinforzo per i comportamenti protettivi: si pensi ad esempio alle cure che possiamo ricevere dalle persone care quando abbiamo un problema o ci sentiamo vulnerabili (es. qualcuno ci accompagna, ci presta molte attenzioni, si rende più disponibile), oppure alla possibilità di non doversi cimentare con le fatiche e i rischi connessi a un lavoro complesso, o ancora alla giustificazione degli altri di fronte all’evitamento di un compito sgradevole. 

Altri meccanismi – meno evidenti – riguardano i processi cognitivi. Tra questi, il rimuginio e la ruminazione rappresentano degli stili di pensiero perseverante che si attivano allo scopo di anticipare ed analizzare tutti gli aspetti di un problema, nel tentativo di porvi un rimedio, ma finiscono solo per aumentare il malessere generale mantenendo attiva la paura di avere un nuovo attacco.

Oltre a ciò, la nostra mente può diventare più selettiva e prestare un’attenzione particolare e costante verso le sensazioni temute, portandoci a ipermonitorare ogni piccolo cambiamento, nella speranza di per poter rispondere prontamente, ma purtroppo questa modalità rende invece ancor più probabile l’attivazione del circuito del panico. 

Un altro meccanismo di mantenimento è la “anxiety sensitivity“, e cioè la tendenza a ritenere che i sintomi dell’ansia siano pericolosi; si tratta di un’intensa paura delle sensazioni corporee che accompagnano gli stati di attivazione, derivante da convinzioni disfunzionali sul significato e sulle conseguenze di tali sensazioni (Reiss et al., 1986; Abramowitz & Blakey, 2019), come ad esempio “se il cuore batte rapidamente mi verrà un infarto”, “se sento la testa leggera, significa che ho una malattia al cervello” e così via. La “anxiety sensitivity” quindi può rappresentare anche una condizione antecedente all’insorgere del panico, e non solo un timore che si sviluppa in seguito ad esso (“paura della paura”).

Tutti questi meccanismi, anche se teoricamente volti alla prevenzione o al controllo della minaccia, finiscono per peggiorare la situazione per diversi ordini di ragioni:

  • rinforzano l’idea che la minaccia ci sia e che sia grave
  • mantengono attiva l’ansia più a lungo 
  • aumentano i comportamenti di autovigilanza rispetto al proprio corpo
  • rinforzano le credenze disfunzionali rispetto alle emozioni e alle sensazioni corporee ad esse correlate
  • portano ad avere un’immagine di sé come vulnerabile e bisognoso di protezione
  • danneggiano il senso di autostima e di autoefficacia 
  • convincono che la soluzione sia da ricercarsi all’esterno e non all’interno
  • peggiorano in modo significativo la qualità di vita
  • rendono maggiormente probabile il verificarsi di nuovi attacchi di panico

 

COME SI CURA IL DISTURBO DI PANICO

 

Se non trattato, il Disturbo di panico tende ad avere un andamento cronico intermittente, con un’alternanza tra periodi caratterizzati da attacchi, e fasi – anche molto lunghe – di remissione (APA, 2013). Intraprendere un percorso di psicoterapia, senza lasciar passare troppo tempo dal primo attacco, può essere quindi molto utile. Tra i vari approcci disponibili, la terapia cognitivo-comportamentale si è dimostrata particolarmente efficace nel trattamento del panico (Clark & Beck, 2010) e nelle principali linee guida internazionali viene annoverata tra i trattamenti raccomandati. 

 

La terapia cognitivo-comportamentale

 

Come funziona la terapia cognitivo-comportamentale per il panico? 

Dopo una prima fase in cui viene svolto un accurato assessment (mediante colloquio, interviste, questionari), si giunge alla formulazione della diagnosi e alla concettualizzazione del problema presentato. 

Solo dopo aver valutato e compreso accuratamente i meccanismi che causano sofferenza, la psicoterapia può entrare nella fase del cambiamento: utilizzando il modello cognitivo del panico (Clark, 1986; Clark & Beck, 2010), viene illustrata al paziente la configurazione del disturbo distinguendone i vari elementi cognitivi, emotivi, somatici e comportamentali. 

Il modello cognitivo rappresenta una cornice fondamentale per mostrare e comprendere il funzionamento del disturbo, ma è comunque essenziale cogliere le manifestazioni del panico specifiche per ciascuna persona, e per fare questo si utilizza in genere un diario appositamente predisposto. 

Per interrompere il circuito vizioso che causa e mantiene il disturbo vengono in seguito introdotti una serie di interventi. La ristrutturazione cognitiva, ad esempio, aiuta a mettere in discussione i pensieri disfunzionali (es. le interpretazioni catastrofiche) e a costruire spiegazioni alternative più realistiche e più utili. Ad essa si associano in genere gli esperimenti comportamentali, gli esercizi di esposizione in vivo e di induzione del sintomo, e la creazione di nuove e più funzionali strategie per confrontarsi con l’ansia. 

Una volta raggiunti gli obiettivi, e prima della conclusione della terapia, è importante dedicare uno spazio sufficiente alla prevenzione delle ricadute, durante il quale vengono individuate le future condizioni di rischio e discussi gli strumenti per superarle.

 

La mindfulness

 

Oltre a ridurre o eliminare i comportamenti protettivi e di evitamento, è essenziale sviluppare un certo livello di accettazione nei confronti dell’ansia nonché una migliore tolleranza nei confronti dei propri segnali corporei. 

A tale scopo possono essere utilizzate le pratiche di mindfulness (Kabat-Zinn, 1990), in combinazione con il trattamento cognitivo-comportamentale, particolarmente efficaci ed utili contro l’ansia e lo  stress. La mindfulness infatti ci aiuta a sentirci maggiormente radicati nel momento presente, ci invita a coltivare la consapevolezza e il non giudizio, e ci permette disviluppare un rapporto più sano con i nostri pensieri, le nostre emozioni e le nostre sensazioni corporee. 

 

I farmaci 

 

Nel trattamento del panico, a seconda del caso, possono essere utilizzati anche dei farmaci. In particolare sono due le categorie di riferimento: le benzodiazepine e gli antidepressivi SSRI (inibitori selettivi della ricaptazione della serotonina). 

Le benzodiazepine sono altamente efficaci per il trattamento a breve termine dell’ansia grazie alla loro azione rapida. Negli ultimi decenni sono però emerse diverse controversie in merito al loro utilizzo, soprattutto a causa del frequente uso improprio e del possibile sviluppo di una dipendenza nel lungo termine. Oltre a ciò, per i pazienti che svolgono una psicoterapia cognitivo-comportamentale il loro effetto nei confronti dell’ansia può interferire con i processi di cambiamento perseguiti, soprattutto se usate per lunghi periodi. Un’altra classe di farmaci utilizzata per il trattamento del disturbo di panico è quella degli SSRI; grazie al loro ampio spettro di efficacia, sono indicati sia per i sintomi ansiosi che per quelli depressivi. A differenza delle benzodiazepine, hanno un miglior profilo in termini di effetti collaterali e non presentano gli stessi rischi in termini di abuso e dipendenza; per questa ragione possono essere utilizzati anche per periodi più lunghi e in combinazione con la psicoterapia. 

Ad ogni modo, la scelta di utilizzare un trattamento farmacologico, da solo o in combinazione con la psicoterapia, deve essere sempre valutata con attenzione dallo psichiatra di riferimento. 

 

 

 

Bibliografia

Abramowitz, J.S., & Blakey, S.M. (Eds.) (2019). Clinical Handbook of Fear and Anxiety: Maintenance Processes and Treatment Mechanisms. American Psychological Association.

American Psychiatric Association (2013). DSM-5. Diagnostic and Statistical manual of mental disorders (5th ed.). Washington DC: Author.

Bowlby, J. (1973). Attachment and loss, Vol. 2: Separation. New York: Basic Books.

Brown, T. A., Campbell, L. A., Lehman, C. L., Grisham, J. R., & Mancill, R. B. (2001). Current and lifetime comorbidity of the DSM-IV anxiety and mood disorders in a large clinical sample. Journal of Abnormal Psychology, 110(4), 585–599.

Clark, D.M. (1986). A cognitive approach to panic. Behaviour Research and Therapy, 24, 461-470. 

Clark, D. A., & Beck, A. T. (2010). Cognitive Therapy of Anxiety Disorders: Science and practice. Guilford Press.

Craske. M.G. & Barlow, D.H. (2007). Mastery of Your Anxiety and Panic, Therapist Guide (4th edition). New York: Oxford University Press.

Kessler, R. C., Chiu, W. T., Demler, O., Merikangas, K. R., & Walters, E. E. (2005). Prevalence, severity, and comorbidity of 12-month DSM-IV disorders in the National Comorbidity Survey Replication. Archives of General Psychiatry, 62, 617–627.

Kabat-Zinn, J. (1990). Full catastrophe living: Using the wisdom of your body and mind to face stress, pain and illness. New York, NY: Delacorte.

McCrae, R.R., & Costa, P.T.Jr. (2013). NEO Personality Inventory-3. Adattamento italiano. Hogrefe.

 

Il testo è pubblicato anche sul sito di Tages Onlus

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